NAPOLI INTERVISTA OTTAVIO BIANCHI - A 36 anni di distanza dal primo scudetto, il Napoli accarezza nuovamente il sogno tricolore in un campionato che lo vede già a +13 sull'Inter seconda in classifica. In città si fanno tutti gli scongiuri del caso, ma c'è anche chi pensa che gli azzurri possano trionfare anche in Champions League. Si tratta di Ottavio Bianchi, l'allenatore del primo scudetto partenopeo, che ha parlato in una intervista al Corriere dello Sport.
"Siamo dinnanzi ad un’impresa che non è un miracolo, perché in questo dominio così assoluto c’è la competenza, la forza limpida del Progetto, che in vari casi sembra un termine usato per fare scena e che in questa circostanza è la parola giusta. E poi non è sempre detto che giocar bene ti faccia ottenere i migliori risultati, anche se quella resta la strada migliore, ma stavolta sta succedendo. Da cosa sono stato colpito? Dal coraggio di credere in se stessi, perché a luglio scorso nessuno osava sospettare che sarebbe venuto fuori un capolavoro del genere. Via Ospina, Koulibaly, Fabian Ruiz, Insigne e Mertens e spazio a calciatori che sono andati a scovare dove altri non avevano avuto la capacità di addentrarsi. Un rischio enorme, se ci pensate, che ha riprodotto un modello intelligente di fare calcio. Perché va detto anche altro, ad esempio: che il Napoli lassù non ci sta da oggi ma da un bel po’".
"E perché mai non dovrebbe farcela una squadra che gioca su questi livelli e a questi ritmi? Chi in Europa mostra tutto questo potenziale? Ci sono delle grandi che sono in difficoltà, e forse sarà stata colpa anche della sosta, mentre il Napoli dopo aver perso a Milano ha semplicemente distrutto il campionato. Lo ha ridotto alla Bundesliga di qualche stagione fa, quando il Bayern festeggiava con un mese d’anticipo e non offriva mai agli avversari la possibilità di pensare che potesse crollare. La Champions League è una possibilità, certo".
"Per dirne una e tralasciando ovviamente Maradona. Ora ci si applica sulle eventuali analogie tra Osimhen e Careca, che non si possono riscontrare. Sono centravanti di epoche lontane, con un calcio che ha connotazioni mutate. Osimhen dà l’impressione che nella sua modernità ignori lo spazio, lo ritenga superfluo, perché è sempre lui che se ne impossessa. E Careca, con quei piedi, sentiva invece la necessità del dialogo con i suoi pari, voleva compagni che dessero del tu al pallone".